Ha ragione Umberto Ambrosoli: inutile spaccare il pelo in quattro, abbiamo perso. Ma le ragioni della sconfitta vanno individuate. Le ragioni politiche vengono da molto lontano, e parlarne significa esprimere opinioni senza il supporto di evidenze sufficienti. Le ragioni tecniche possono essere invece identificate più facilmente.
La prima ragione è il tempo: 3-4 settimane per proporre la candidatura alle primarie; altre 8 settimane per arrivare alle elezioni. Troppo poco. Giuliano Pisapia cominciò a lavorare per le comunali di Milano, che si tennero a inizio maggio 2011, dal luglio del 2010: quasi un anno per battere – quartiere per quartiere – una città.
La seconda ragione è legata alle risorse economiche: insufficienti. Con poco tempo a disposizione, un budget robusto avrebbe potuto aiutare a recuperare il divario di notorietà. Le affissioni negli spazi commerciali finché la legge lo consente e poi le plance elettorali avrebbero fatto conoscere il volto e il nome del candidato a quegli elettori meno attenti all’informazione, a quelli che non leggono i giornali e guardano poco o con minore attenzione i telegiornali e le trasmissioni televisive di informazione politica.
La terza ragione riguarda i contenuti e gli stili della comunicazione. Ambrosoli ha potuto, con il supporto di decine di esperti e accademici, sviluppare un progetto di governo – non un programma elettorale, proprio un piano di impegni per governare la Regione – che aveva due focus: il lavoro e la riduzione dei costi della politica. In termini più precisi: l’impegno a sostenere attivamente le imprese e lo sviluppo economico in modo da creare 300mila posti di lavoro (facendo così salire l’occupazione dal 65 al 70%, con un forte incremente dell’occupazione femminile), e l’abbattimento dei compensi a consiglieri assessori e presidente della Giunta (un orientamento accompagnato da un più ampio impegno a garantire comportamenti irreprensibili). Una buona sintesi, una sintesi realistica, concreta. Certo con quel requisito di “realizzabilità” che caratterizza gli impegni che i leader intellettualmente onesti accettano di dichiarare come “concessione” alla esigenza di sintesi che la comunicazione di massa impone.
Dall’altra parte, il “combinato disposto” della promessa di Maroni di trattenere in Lombardia il 75% delle tasse e quella di Berlusconi di restituire l’IMU hanno fatto presa. Non sappiamo se siano credibili (Maroni probabilmente tra qualche mese spiegherà che “è colpa di Roma” se non può ottenere quello che ha promesso in campagna elettorale, mentre Berlusconi non avrà la responsabilità del Governo e quindi non dovrà giustificare la mancata restituzione dell’IMU) ma sicuramente sono efficaci. Come tutte le favole. E hanno premiato Maroni nelle aree più periferiche della Regione, dove è maturata la sua vittoria.
Infatti il dato che emerge con maggiore forza da una prima occhiata all’andamento del voto è la divaricazione tra grandi centri urbani e aree rurali e montane: Ambrosoli ha prevalso in 11 capoluoghi di provincia su 12, insomma tutti tranne Varese, la città del leader leghista. Con uno scarto che va dal punto di Como ai 14 di Milano fino ai 20 di Mantova. Eppure non è bastato.
Attenzione, però: non si tratta di distinguere tra cultura “alta” e cultura “bassa”. Non basta evocare la differenza nei tassi di lettura dei giornali tra centri urbani e provincia. Si tratta di distinguere tra modelli cognitivi, tra modi di organizzare la propria percezione della realtà. Modi diversi che definiscono diversamente il perimetro della realtà stessa. Tra i ceti urbani è più elevata la disponibilità a considerare rilevanti questioni dalle quali non si è toccati direttamente e concretamente. Se a Milano ci si chiede come sia possibile che dopo gli scandali nella sanità e la penetrazione della ‘ndrangheta sia stata premiata un’offerta politica di continuità con l’amministrazione uscente di Formigoni, a Moniga del Garda si limitano a constatare che quando chiamano il CUP per prenotare una visita specialistica in ospedale l’appuntamento viene fissato in modo efficiente e in tempi ragionevoli. E quando sentono parlare di ‘ndrangheta pensano alla Calabria e a uomini tozzi con la coppola in testa che in piazza San Martino non hanno mai visto.
In altre parole non si sentono toccati e investiti dall’allarme sulle questioni etiche, che sembrano poter avere un impatto sulla propria realtà e sulla propria esperienza quotidiana solo marginale e comunque indiretto. Mentre la restituzione dell’IMU, una riduzione delle imposte, la cancellazione del bollo auto hanno un impatto diretto sul proprio portafoglio.
Insomma a fare la differenza, in Lombardia, potrebbe essere stato quel voto d’opinione che potremmo definire “pragmatico”, “di interesse” o “utilitaristico”. Insieme alla stima per la figura personale di Roberto Maroni e ad una parte di voto irriducibilmente identitario (leghista e berlusconiano), avrebbe contribuito a superare il voto per Ambrosoli. Che a sua volta ha goduto, oltre al voto identitario della base PD, di un voto d’opinione che potremmo chiamare “valoriale” o “consapevole” (degli effetti indiretti delle storture collusive delle precedenti amministrazioni).
La conclusione non assolve nessuno, ma punta il dito su un dato dal quale non si può prescindere: chiunque si occupi di comunicazione di massa sa che il successo di una proposta è saldamente legato alla notorietà. E’ la notorietà il requisito fondamentale per conquistare il consenso. Quando Umberto Ambrosoli ha cominciato questa avventura politica aveva una notorietà pari a un terzo di quella di Maroni. Ha recuperato tantissimo. Ma non ha avuto tempo sufficiente per il sorpasso. E’ una lezione per un’intera classe dirigente: il consenso non si costruisce in 8 settimane. E’ bene che si cominci domattina a lavorare per il prossimo giro.